Vitalizi ai condannati e stipendi L’arrocco del Parlamento
di Sergio
Rizzo per IL Corriere Della Sera.it
Le Camere costrette a rimettersi a una legge per risolvere il nodo indennità ai condannati. Mentre per il tetto dei salari al personale si pensa a «tagli a tempo»
ROMA
- Da mesi il Terrore si aggira nelle immediate vicinanze del Palazzo.
Serpeggia nell’elenco sterminato dei vitalizi degli ex
parlamentari, alla ricerca dei condannati in via definitiva, ora
sotto il peso di una valanga di carte: otto-pareri-otto prodotti da
altrettanti illustri costituzionalisti.
Serpeggia
da tempo, anche se una brusca accelerazione si verifica a novembre,
quando il presidente dell’assemblea regionale siciliana Giovanni
Ardizzone spedisce alla Camera e al Senato il suo carteggio con
l’Avvocatura dello Stato sul caso di Salvatore Cuffaro. L’ex
presidente della Regione condannato a 7 anni per vari reati fra cui
il favoreggiamento a Cosa Nostra, classe 1958, percepiva un vitalizio
regionale di 6 mila euro al mese: impensabile, dopo le furiose
polemiche scoppiate sul caso, che non si ponesse un problema.
Risolto, appunto, con un parere dell’Avvocatura dello Stato secondo
cui a chi viene colpito dalla pena accessoria dell’interdizione
perpetua dai pubblici prevista per condanne superiori a 5 anni il
vitalizio non va soltanto sospeso, ma revocato del tutto. Gli
avvocati richiamano quell’articolo del Codice penale che prevede
appunto per quei soggetti la privazione «di stipendi, pensioni o
assegni che siano a carico dello Stato». E a nulla vale appellarsi
al fatto che la Consulta abbia decretato l’incostituzionalità
della norma nella parte relativa alle pensioni. Perché il vitalizio,
argomenta l’Avvocatura, è cosa ben diversa dalla pensione, essendo
legato non a un rapporto di lavoro ma a un mandato pubblico elettivo.
Amen.
Recapitate
da Ardizzone ai piani alti della Camera e del Senato, quelle sei
paginette contengono un messaggio nemmeno troppo subliminale: e
adesso che cosa si fa con i vitalizi parlamentari? Non che ai vertici
del Parlamento mancasse la volontà di tirare fori dalla naftalina il
dossier degli ex onorevoli condannati e titolari di assegni spesso
profumati. Ad agosto il presidente del Senato Pietro Grasso aveva
dichiarato pubblicamente l’intenzione di togliere il vitalizio a
quei senatori condannati per i reati che secondo la legge Severino
comportano l’incandidabilità. Ma la vicenda di Cuffaro, che prima
di finire in carcere era fra l’altro anche senatore, è stato un
detonatore micidiale. Con il rischio di provocare un’esplosione ben
più grande. Così devastante che subito si sono alzate le barriere
protettive. Anche perché al di là dei casi più eclatanti come
quello di Marcello Dell’Utri che come Cuffaro si è beccato 7 anni,
i condannati che potrebbero perdere il vitalizio, ora ma anche in
futuro, sono un bel numero.
E
il problema riguarda quasi tutti i partiti, ai quali l’impostazione
rigorista di Grasso non va affatto giù. Scontato, dunque, che
trovare un accordo sull’applicazione immediata di una tagliola
fosse impossibile. Come sempre capita in questi casi, è allora
partita la sarabanda dei pareri pro veritate: ma giusto per
scaricarsi, viene da pensare, della responsabilità di una decisione
che per forza di cose sarà tutta (e solo) politica.
Fra
Camera e Senato, come ha raccontato qualche settimana fa sul Corriere
Dino Martirano, ne sono stati chiesti addirittura otto, a otto fra
costituzionalisti, giuristi, consiglieri e presidenti emeriti della
Consulta. Nomi come Sabino Cassese, Michele Ainis, Alessandro Pace,
Massimo Luciani, Giancarlo Ricci, Franco Gallo, Valerio Onida e
Cesare Mirabelli. Con l’ovvio esito di trovarsi di fronte a otto
punti di vista non coincidenti. E sorvoliamo sul costo: pure chi (per
esempio Onida) aveva manifestato l’intenzione di svolgere
l’incarico gratuitamente, ha dovuto in seguito alle insistenze
degli uffici staccare la parcella minima. Da 8 mila euro.
Il
risultato è che mercoledì prossimo, alla riunione congiunta fra i
vertici di Camera e Senato per stabilire il da farsi, si finirà
probabilmente per rimandare la soluzione a un’apposita legge. Un
provvedimento complicato, dove non si potrà non tener conto della
legge Severino che impone l’incandidabilità per pene superiori a
due anni. Ma che, immaginiamo, sarà anche un terreno di scontro
feroce sulla retroattività delle sanzioni. E se nel frattempo, come
vorrebbe qualcuno, anche la legge Severino venisse modificata...
Speriamo soltanto che non venga fuori l’ennesimo pasticcio, però
le premesse ci sono tutte.
Come
ci sono per un’altra rogna che la Camera dovrà affrontare giusto
il giorno prima, martedì 14. Domani è infatti prevista la riunione
della cosiddetta commissione contenziosa, composta dall’ex grillino
Tancredi Turco, dal democratico Alberto Losacco e dal forzista
Antonio Marotta, competente per giudicare sui ricorsi dei dipendenti.
Pure alla Camera i sindacati hanno contestato il taglio degli
stipendi previsto per allinearsi al tetto dei 240 mila euro fissato
alle retribuzioni di tutti i dipendenti pubblici. Ma è una
decisione, quella affidata domai ai tre, che difficilmente non sarà
influenzata da quanto è già accaduto al Senato. Lì i 14 sindacati
dei dipendenti non sono riusciti a evitare la riduzione degli
stipendi ma hanno portato ugualmente a casa un risultato clamoroso:
la temporaneità dei tagli. Resteranno in vigore solo fino al 31
dicembre 2017. Due anni o poco più: poi si vedrà.
I
miracoli dell’autodichìa, principio assurdo in base al quale gli
organi costituzionali stabiliscono le regole per se stessi, in barba
a quelle che valgono per gli altri comuni mortali, non cessano di
stupirci. Ma c’è da chiedersi se nel 2015 tutto questo abbia
ancora un senso. E la risposta è ovviamente una sola: no.
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